Sembra una domanda banale ma non lo è. Se sappiamo bene quando rivolgerci al nostro medico di base per una problematica fisica, riuscendo a cogliere i segnali che il corpo ci invia, lo stesso, purtroppo non vale per la salute mentale.
Questo, a mio avviso, è dovuto a una serie di pregiudizi che ancora oggi persistono circa l’opportunità di chiedere una consulenza psicologica.
Motivo per cui nella strutturazione del mio sito ho creato uno spazio che ho chiamato “Miti da sfatare” nel quale cerco di rispondere alle principali domande che una persona oggi si pone rispetto alla figura delle psicoterapeuta e alla consulenza psicologica.
Ma partiamo da alcune osservazioni di carattere socio-culturale che, a mio avviso, ci possono aiutare a capire meglio perché non è così facile e scontato rivolgersi a un terapeuta.
Innanzitutto non siamo portati a considerare la salute e il benessere mentale con la stessa importanza della salute fisica, come se le due cose fossero separate e viaggiassero su due binari diversi.
In verità il modello biopsicosociale considera la malattia, e quindi la salute, come l’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali. La malattia fisica influenza ed è influenzata da fattori psicologici e sociali, la sofferenza psicologica influenza ed è influenzata da fattori biologici e sociali.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) già nel 1948 ha definito la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, eppure ad oggi la salute mentale è considerata troppo spesso secondaria a quella fisica.
In Italia, ad esempio, le decisioni politiche prese in questi due anni di pandemia confermano che la salute mentale della popolazione non viene considerata al pari delle problematiche fisiche e, soprattutto, economiche. In verità, se ci riflettiamo appare ovvio che la sofferenza mentale ha ripercussioni sulla salute fisica, sulle relazioni sociali e anche sulla capacità di lavorare con conseguenze anche sul piano economico. Un popolo che non è tutelato riguardo alla salute mentale è sicuramente un popolo meno produttivo ed efficiente.
Alla luce di questo assetto culturale non stupisce che non siamo abituati a dare importanza ed a cogliere i segnali del malessere psicologico e, di conseguenza, a vivere la richiesta di aiuto psicologico con la stessa “normalità” e ovvietà con cui viviamo la richiesta di aiuto per un problema fisico.
A questo punto torniamo alla domanda iniziale: quando chiedere una consulenza psicologica? La risposta non è univoca ma ci sono degli aspetti che possiamo monitorare per fare più chiarezza.
Innanzitutto bisogna tener conto del nostro stato emotivo; le emozioni, anche quelle sgradevoli (es. ansia, paura, tristezza) non sono mai “sbagliate”, sono indicatori preziosi che ci guidano nel nostro cammino; tuttavia, se la loro intensità è così elevata da compromettere la nostra vita quotidiana (es. le relazioni, il lavoro) e perdurano nel tempo, forse è opportuno chiedere una consulenza. Facciamo un esempio: un conto è essere in ansia per l’esito di un importante colloquio di lavoro, altra cosa è sperimentare uno stato di ansia intenso e persistente che ci accompagna per buona parte della giornata e compromette la nostra vita quotidiana, non ci permette di essere efficienti nei nostri impegni e di avere una buona qualità di sonno. In quest’ultimo caso l’intensità e la durata dell’emozione è invalidante ed è opportuno intervenire.
A volte non riconosciamo una sofferenza emotiva ma possiamo avere difficoltà in uno o più contesti di vita: conflittualità o relazioni insoddisfacenti in famiglia, con gli amici o sul lavoro; anche in questo caso si può valutare l’intensità e la durata di queste difficoltà come discriminante per chiedere aiuto. Facciamo un esempio: un conto è avere una singola discussione con il proprio capo, altro è avere ripetute discussioni con colleghi, amici, familiari; quest’ultimo caso è sicuramente più invalidante perché compromette più ambiti della propria vita, è pervasivo e degno di attenzione. Queste difficoltà relazionali vengono meno riconosciute da quelle emotive ma sono altrettanto importanti e hanno bisogno di essere affrontate.
Si può chiedere una consulenza anche in momenti evolutivi importanti della nostra vita in cui ci rendiamo conto di far fatica ad adattarci ai cambiamenti (es. matrimonio, separazione, nuovo lavoro, inizio università); anche in questo caso bisogna considerare il perdurare delle difficoltà e l’intensità della sofferenza.
Alcune volte non riconosciamo una sofferenza emotiva ma notiamo delle alterazioni nel sonno e nell’alimentazione, stanchezza, difficoltà di concentrazione, difficoltà di organizzazione, oltre che sintomi prettamente fisici quali, ad esempio, malattie psicosomatiche, cefalee, disturbi gastrointestinali; anche in questo caso è fondamentale tener conto dell’intensità dei sintomi e della durata; se persistono nel tempo è opportuno approfondire cosa ci possa essere alla base, sia con il proprio medico di famiglia, sia con un terapeuta per valutare una componente psicologica collegata. Spesso la mente ci manda dei segnali che, se non colti subito, prendono la via della somatizzazione perché, tornando al discorso iniziale, se il corpo mi parla poi finalmente forse lo ascolto. Mi piace pensare che la mente sussurra dei bisogni che, se facciamo orecchie da mercante, fa urlare al corpo in modo più chiaro e evidente.
In conclusione...
In buona sostanza è opportuno chiedere aiuto quando siamo insoddisfatti della nostra vita, non riusciamo a raggiungere i nostri scopi o non li vediamo affatto, quando abbiamo provato delle strategie per stare meglio ma queste sono state fallimentari e non ne riusciamo a trovare delle altre.
Il benessere è un delicato equilibrio di adattamento all’ambiente e infatti, per contro, lo stress non è altro che uno squilibrio tra alte richieste dell’ambiente e basse risorse percepite per farvi fronte e adattarsi.
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